Adesso che non è più, mi piace pensarlo finalmente libero.
Libero dalla morsa di quella malattia terribile che l’ha schiacciato fino a soffocarlo.
Senza catene, senza l’angoscia di quella fame d’aria costante che l’ha accompagnato negli ultimi mesi.
Dio solo sa quanto ha sofferto Roberto Lombardi e quanto gli sia stato persino difficile morire.
Sapeva da tempo ciò che lentamente e irreversibilmente lo stava minando dentro, sapeva che cosa sarebbe stato chiamato a sopportare, ed è stato mirabile nel provare ad essere un “hombre vertical” fino all’ultimo.
Del resto, non avrebbe potuto essere altrimenti: il suo esistere ha avuto una matrice sola: guardarla bene in faccia ‘sta vita un po’ puttana, farle un ghigno beffardo e andare oltre. Facendole capire, chiaro e netto, che lui era nato per scegliere e non per essere scelto.
Il corpo minuto e traditore ? Un problema relativo, anzi un ulteriore elemento da sfidare e superare, ché le ambizioni mica potevano essere prigioniere d’un telaio non adatto. Degli infiniti giorni passati al C.T. Alessandria col professor Cornara, spesi poi in sfide altrettanto infinite con quel ragazzino secco secco, diventato amico e duellante principe, che si chiamava Corrado Barazzutti, gli è rimasto per lungo tempo appiccicato addosso l’appellativo “Robertino”. Ma lui non era nato per essere “-ino”, aveva un ego bello pronunciato che in qualche modo doveva totalmente realizzarsi.
Se il gioco gli aveva regalato una più che onorevole carriera in Prima Categoria (numero 6 d’Italia ai tempi di Panatta & C. e una finale degli Assoluti, giocata e persa proprio contro “Barazza”) e a livello internazionale (con un set strappato a McEnroe e del quale Roberto amava raccontarti cento volte e risvolti…), subito dopo la laurea in matematica, era sceso in campo per riprendersi il tennis da protagonista assoluto, come studioso e scienziato, innamorandosi di tutto quanto nello sport di palla e racchetta era riconducibile a leggi fisiche e biomeccaniche.
Fu Riccardo Piatti a presentarmelo all’inizio degli Anni ’90, la prima volta che scesi a Roma da direttore di “Nuovo Tennis”. Come tutti, fui colpito immediatamente dal carattere forte e a tratti ruvido, dall’istantanea voglia di metterti in soggezione e alla prova.
Il nostro primo colloquio fu strano, fatto di indagini e sottintesi: nel bel mezzo d’una frase ci cacciava dentro un vocabolo astruso e desueto, giusto per capire se capivi; il nome d’un pittore e una citazione di Toqueville. Per puro caso conoscevo Alphonse Mucha e provai a rilanciare con un discorso sull’Art Nouveau, Praga e la Mittel Europa e feci centro. Roberto prese a guardarmi con aria meno distratta e poche settimane dopo iniziò a scrivere su “Nuovo Tennis”.
Mese dopo mese nacque affetto vero, tanto da portarmi in dote al giornale anche quella straordinaria donna che è stata Marinella Molinari, la sua prima moglie.
Anni difficili per Roberto, passati col sorriso sul volto e la morte nel cuore, per la malattia che già gli stava portando via Marinella e i guai suoi che l’avevano condotto a due difficili interventi chirurgici.
Ma lui era uno che sapeva e voleva superare ogni ostacolo a fronte alta, e riuscì ad andare oltre. Sopravvivendo al dolore e alla dipartita di Marinella, senza lamentarsi e tediarti mai, tuffandosi nel lavoro, nell’agognato Centro Studi della F.I.T. per ritrovare slancio e vita, nelle mille telecronache su “Sky”, dove gli piaceva dar sfoggio alla sua cultura e su questa giocarci un po’.
Poi una forma molto simile alla SLA l’ha pugnalato alle spalle ed è stato terribile parlargli due anni fa a Roma, sulla terrazza della sala stampa: “Elis, sono finito sotto un tram !” e io che subito non capivo e poi speravo di non capire. Da lì, la discesa è stata lenta e terribile. Bastava guardare le ultime puntate della sua rubrica tecnica sui colpi dei campioni su “Supertennis” per rendersene conto: il respiro sempre più affannoso, quella cassa toracica che non voleva più saperne di espandersi. La pena la intuivi tutta.
Però Roberto, pur già costretto sulla sedia a rotelle, non mollava e stringeva i denti una volta di più. Andava avanti lo stesso.
Ed è stato così sino all’ultimo.
Adesso che non è più, voglio pensarlo di nuovo libero. Vicino a Marinella.
Come quella sera di maggio a Roma tanto tempo fa, a casa loro, in via dei Giubbonari, a pochi metri da Campo de’ Fiori: era stanco Roberto, ma pretese di farci uscire nella notte, per ingoiarsi un altro po’ di vita. Sorrideva, col toscano in bocca, e provava a nascondere dolori e ferite profonde.
Da lì in avanti i giorni avrebbero preso a picchiare ancora più duro, ma non credo abbia pianto mai, che si sia fermato un attimo per compiangersi. Mai stanco della vita.
Adesso non è più, povero amico mio, e non c’è più tempo per progettare altre cose insieme: “Dai Elis, chiamami quando vuoi e proponimi qualcosa: sai che con te collaboro sempre volentieri e ho un affetto speciale…”
Non c’è stato tempo. Neppure per vivere con Caterina, la seconda moglie, tutto quello che sarebbe stato profondo e giusto.
Piangere non serve, ma è dura. L’unica è provare a rilanciare, proprio come avrebbe fatto lui. Cercando di dirsi che oggi è già un altro giorno e si ha il dovere di combattere fino all’ultima palla dell’ultimo quindici.
Come si deve vivere e come si deve morire.
Anche a me mancherai; quanto l’ultimo abbraccio che non t’ho dato e l’ultimo sorriso un po’ gaglioffo che non ho avuto.
Ciao Roberto, ciao straordinario e sfortunato amico mio.
Elis Calegari